L'Arca International N° 112

Maggio / Giugno 2013

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Stranismo ?

 

Le diverse varianti di apparenza e di concezione dell’architettura, la storia dei tempi recenti le racconta raggruppandole e definendole con degli “ismi”.

 

Siamo passati tranquillamente dall’eclettismo, al razionalismo per poi trovare il postmodernismo. Concetti abbastanza significativi per rappresentare i linguaggi compositivi del progetto. Soprattutto per il “razionalismo” significavano come l’organizzazione della distribuzione degli spazi e delle funzioni interne degli edifici fossero veramente geometricamente razionali. Proporzioni di volumi generati da spazi interni matematicamente studiati per orientamento, illuminazione, composizione dei pieni e dei vuoti in funzione dell’apparenza esterna, usando soprattutto tecniche costruttive e materiali coerenti e innovativi che l’epoca consentiva.

 

Cemento armato, vetro, ferro e intonaco con pochi colori primari. Il postmodernismo, nato sulle ceneri del razionalismo e delle sue ibridazioni, senza innovare o modificare l’impianto interno del progetto e cercando di rifiutare apertamente la grande madre compositiva del razionalismo, mancando di veri talenti progettuali e quindi mancando di maestri che sapessero continuare e superare quanto era avvenuto fino ad allora, è diventato una palestra per cercare di esprimere un aspetto esterno e aggregativo degli edifici interpretando i linguaggi già espressi dagli artisti pop.

 

Attingere forme e colori da un catalogo di “cose” popolarmente conosciute e tradizionali, come archi, timpani e colonne e, come un gioco di costruzioni in legno, comporre ambienti ed edifici. Un metodo che delegava tutto all’aspetto esterno che, proprio per la sua facilità di lettura, ha saputo contagiare rapidamente gli architetti nelle diverse parti del mondo e altrettanto rapidamente, vista la mancanza di approvazione della critica e delle nuove generazioni come avviene nella moda, è stato velocemente superato.

 

Il vero problema mi sembra che lo si stia vivendo oggi perché dalle colonne e dai timpani siamo arrivati a riconsiderare le antiche esperienze di Joseph Paxton, costruttore del Crystal Palace, e ancora una volta, concentrando tutti gli sforzi creativi e innovativi nel cercare giustamente di dimenticare l’esperienza del postmodernismo e allacciandosi ai valori culturali e scientifici raggiunti nel secolo scorso dal razionalismo, stiamo superando le esperienze precedenti approfittando del computer come unico strumento per disegnare; macchina che ci consente di esprimerci liberamente, senza vincoli di righe e di squadre.

 

Riusciamo finalmente a cambiare il tradizionale vocabolario dell’architettura eliminando termini eterni come: tetto, facciata, cortile, davanti , dietro, balcone ecc...

 

Oggi grazie a nuovi materiali e alle nuove tecnologie costruttive l’edificio diventa un unico organismo, un po’ come avviene negli aerei dove la superficie esterna è per natura e per aspetto funzionale alla sua efficienza interna ed è un continuum proprio come la “pelle” nei corpi viventi.

 

Da questa filosofia progettuale e concettuale, proprio per la grande libertà che la forma e l’aspetto degli edifici possono assumere è molto difficile cercare di appioppare un “ismo” significativo. Forse “formalismo” . Non so voi, che avete la pazienza di leggermi, ma almeno io credo che ora dopo venti anni di totale libertà di progetto, senza regole e senza gabbie di pensiero, sia giunto il momento di una riflessione e iniziare a chiederci se questa corsa sfrenata di fantasia che ha costruito torri e volumi dagli spetti incredibili e inimmaginabili e persino antigravitazionali con sbalzi e inclinazioni sorprendenti, stia generando un futuro paese dei balocchi costituito da enormi macro oggetti: belli, bellissimi e persino “trasportabili”.

 

Infatti è difficile individuare la loro identità di appartenenza al sito che li ospita, tanto che sono facilmente ricollocabili da Londra a Dubai, come niente fosse. La mia impressione e che stia iniziando una ossessione progettuale internazionale a “fare strano” che ci porta sicuramente a realizzare grandi monumenti che testimonieranno ai posteri degnamente la nostra attuale civiltà ma che poco riescano a migliorare e innovare gli spazi residenziali e urbani dove noi dobbiamo e dovremo abitare.

 

Forse se applicassimo maggiore fantasia a concepire l’organizzazione spaziale delle nostre case, dimenticando gli schemi distributivi del secolo scorso, che continuiamo ad applicare tranquillamente senza considerare che i nostri costumi di vita sono completamente cambiati, anche l’aspetto volumetrico sarebbe più coerente ai linguaggi contemporanei, inventando finalmente un “non concluso” che lasci a noi la sua definizione o trasformazione finale.

 

Sono convinto che il prossimo futuro ci vedrà impegnati in architetture in progress per raggiungere finalmente l’idea di abitare una città non finita e sempre in grado di adeguarsi alle diverse necessità e culture dei suoi cittadini. Ma questo è argomento di futuri ragionamenti.

 

Cesare Maria Casati