L'Arca International N° 109

Novembre / Dicembre 2012

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Il coniglio è la nuova carne di vitello

 

Ogni due anni, alla fine di agosto, si inaugura a Venezia
la Biennale di Architettura. Unica grande manifestazione al mondo dedicata unicamente all’Architettura e sostenuta dallo Stato italiano con aiuti esterni di sponsor illuminati.

 

Evento importante, perché organizzato in una città che
è essa stessa sinonimo di architettura e perché, almeno
in Europa, è ancora l’unica mostra dedicata al grande pubblico, che dovrebbe far conoscere biennalmente il punto di qualità e di innovazione che la realizzazione e il progetto di architettura hanno raggiunto nel mondo.

 

Purtroppo anche quest’anno a Venezia, secondo la mia opinione, hanno inspiegabilmente prevalso mediocrità
e provincialità, che ancora una volta hanno portato la Fondazione Biennale a nominare un direttore architetto,
e per giunta straniero, senza tenere conto di meriti e competenze specifiche nell’organizzare grandi eventi internazionali.

 

Come del resto è avvenuto nelle edizioni precedenti. Dico provincialità nella considerazione che
la mostra è organizzata con denaro pubblico italiano, che l’Italia è famosa per la qualità dei suoi esperti di regia
e di organizzazione di grandi mostre da sempre, e che scegliere un italiano per rappresentare la nostra immagine e competenza culturale non dovrebbe essere difficile.

 

Esemplare per italica provincialità, la conferenza 
stampa tenuta strettamente solo in lingua inglese, senza traduzione per il pubblico professionale, dove a nostro riscatto, sempre in inglese, Chipperfield ha citato una frase esemplare, non ricordo di chi: “Se l’architettura è la madre di tutte le arti, l’Italia è la madre della madre”.

 


Insomma la mostra, che in questo numero sommariamente documentiamo con commenti di critici e di docenti, diretta David Chipperfield e intitolata “Common Ground”, nel suo insieme non riesce a dare alcun aiuto al pubblico per capire cosa sia veramente, e soprattutto oggi, l’architettura.

 

Ancora una volta viene raccontata come un prodotto
di oscuri laboratori mentali coinvolti dal carrierismo universitario o da situazioni sociali estreme, sempre senza proposte di soluzioni legate alle possibilità del mondo attuale, alle tecniche costruttive e non a teoremi linguistici del passato.
Allestimenti banali e tradizionalmente ermetici, migliaia
di fotografie su carta e migliaia di proiezioni con videoproiettori usati come nel passato, dando sequenze di immagini come fossero diapositive. E pensare che ormai vediamo anche le partite di calcio in 3D.

 


Anche in questa edizione, come ho già segnalato, competenza e esperienza sono assenti, soprattutto nella scenografia degli allestimenti e nella comunicazione
al pubblico.

 

Viviamo un’epoca formidabile di globalizzazione nello sviluppo dei mezzi di comunicazione che la Biennale sembra ignorare esprimendosi proprio come trenta anni fa.
Forse è questo l’elemento che rende evidente la mediocrità che pervade tutta la immensa mostra, Arsenale o Giardini che sia.

 

Naturalmente e per fortuna ci sono delle eccezioni in pochi Paesi esteri dei Giardini, nel padiglione Italia e all’Arsenale, curato sapientemente da Luca Zevi, dove finalmente, con un buon allestimento, si spiega anche l’importanza della committenza e del contributo della ricerca di tecnologie e materia dato dalle industri italiane.

 

Che l’architettura non sia solo il risultato del progetto estetico architettonico, ma che sia un insieme di competenze come le tecniche costruttive, la ricerca scientifica, la situazione socio culturale dei siti e la qualità della committenza, non dovrebbe essere un concetto molto arduo da comprendere, ma sembra ogni volta che per Venezia sia difficile. 
Aspettiamo la Biennale del 2014.

 

Cesare Maria Casati